lunedì 2 marzo 2009

Capitolo 5

Il giorno precedente

Quante erano le volte che avrebbe voluto raccontare tutto al professore? Tre, quattro?
Ma poi si era sempre tirato indietro dicendosi che non spettava a lui parlare. Sapeva che era una bugia che si raccontava per non prendere l’iniziativa.
Una folata di nebbia gelida gli fece affondare la testa nelle spalle imbottite dell’impermeabile. Quella sera non sarebbe entrato nella chiesetta per assistere alla lezione. Sicuramente il professore avrebbe letto e chiesto commenti allo scritto che lui aveva infilato, insieme a quello degli altri studenti, nella pila sul tavolo.
Roberto si disse che doveva agire, non poteva continuare a nascondersi. Quelle parole, non sue, ma di sua mano portate al professore, suonavano come una cupa minaccia. Doveva assolutamente parlargli.
Sarebbe rimasto fuori ad aspettarlo; e alla fine della lezione, una volta per tutte, gli avrebbe spiegato e detto tutto. Quella nebbia però gli stava penetrando nelle ossa per cui decise di attendere in auto. Salì, si calcò meglio il cappello in testa, affondò le mani nelle tasche e guardando verso l’ingresso della chiesa si mise pazientemente in attesa. La lezione non sarebbe finita prima di un’ora, valutò.
Roberto aveva una gran paura; sapeva che rivelare la verità al professore gli avrebbe attirato addosso l’ira di Pietro: una rabbia che aveva imparato a temere fin da piccolo, fin dalle elementari.
Pietro era sempre stato il più forte fra loro due.
Era quello che si rivoltava alle prevaricazioni, alle prepotenze. Le zuffe per lui erano un tonico. Ma se era vero che Pietro era un prepotente, era anche vero che Roberto sapeva di poter sempre contare sul suo aiuto. Tutte le volte che era stato in difficoltà, lui era sempre intervenuto in sua difesa. Anche se poi gli toccava sempre condividerne le punizioni.
Nel suo intimo, Roberto pensava che Pietro avesse delle reazioni esagerate, ma lui era fatto così: selvaggio, privo di controllo; a Roberto faceva venire i brividi.
E ciò che quella sera Roberto stava per fare rischiava fortemente di scatenare la sua furia.
Fu distolto dai suoi pensieri dalla luce che usciva dalla chiesetta. Stavano andando via tutti. “Come mai così presto?” un brivido gli corse su per la schiena fino a rizzargli i capelli della nuca. Allarmato, uscì dall’auto, restò in piedi nella nebbia… in attesa. Intravide il professore spegnere una sigaretta, salire in auto e accendere i fari. Doveva sbrigarsi. Aprì la bocca per chiamarlo, ma poi perse coraggio e rimase zitto: per l’ennesima volta rinunciò.
L’auto di Stefano di accese e si mise in movimento. A malincuore, ma sollevato, Roberto girò le spalle e scomparve nella nebbia.


Oggi

Stefano parcheggiò vicino all’ingresso del piccolo cimitero, era in anticipo. Rimase seduto in auto ad aspettare. Inevitabilmente trovandosi davanti a quel luogo la memoria tornò indietro nel tempo.
Quel giorno disgraziato continuava a scorrere nella sua mente come un anello di pellicola, senza fine. Ricordava ancora quel mattino quando sua moglie Elena, durante la colazione, gli aveva fatto degli strani discorsi. Gli aveva detto che la scelta, da lui fortemente sostenuta, di trasferirsi nel paese di origine di lei non era stata una buona idea, che lei lì non ci stava bene. E come era partita anni prima, voleva andarsene di nuovo.
Non avevano mai più avuto occasione di riparlarne. Poco dopo Elena e Martina erano andate a sbattere con l’auto contro un platano sulla strada della scuola. Oltre all’ovvio senso di colpa per aver portato Elena a vivere in luogo che sentiva ostile, a Stefano era rimasto il dubbio, che non aveva confessato a nessuno, nemmeno al dottor Sivieri, che le due cose fossero in qualche modo collegate. Con un sospiro si riscosse.
Stefano guardò l’ora, mancava poco all’appuntamento e Guglielmo non si vedeva ancora. Di colpo gli venne il dubbio di avere frainteso il luogo, visto anche tutto il mistero che aveva avvolto quella vicenda fin dall’inizio.
Scese dall’auto, sentendosi chiamare si girò e vide Guglielmo che si stava avvicinando.
“Finalmente!” pensò.
Il maestro gli tese la mano “Buonasera, Professore!” e con un cenno del capo lo invitò più vicino alla siepe “Scusi tutta questa prudenza, ma in questo paese anche i muri hanno le orecchie, professore, non pensi che io sia paranoico. In più sto trasgredendo ad una promessa.”
Stefano notò che l’anziano maestro era piuttosto agitato, ma continuò deciso “Sembrava che quella vecchia storia fosse finita e la gente del paese avesse dimenticato… ma poi lei è arrivato a tenere il corso di scrittura proprio nella vecchia chiesa al limitare del terreno dei Baccani e tutto è ricominciato.”
Stupito Stefano domandò “Ricominciato cosa?”
Stefano iniziava vagamente a collegare lo scritto minaccioso con le parole di Guglielmo e non gli piaceva la direzione che i suoi pensieri stavano prendendo. Così gli chiese di essere più chiaro.
“Avevo promesso di tacere… ma sua moglie, professore, non le ha mai raccontato niente di quando viveva qui?”
Nella memoria di Stefano fece nuovamente capolino quel discorso che sua moglie gli aveva fatto la mattina dell’incidente. Gli ronzavano le orecchie e le tempie gli pulsavano: “Di cosa sta parlando?” trovò la forza di chiedere.
Guglielmo lo guardò quasi con compassione poi proseguì “Conoscevo sua moglie, era stata una mia alunna sa? Ci fu uno scandalo quando lei aveva circa 18 anni. A quell’epoca era divenuta amica di un ragazzo figlio di una famiglia facoltosa del paese, i Baccani. Il ragazzo aveva già in passato avuto problemi ma a quel tempo sembrava avere ritrovato un equilibrio. L’amicizia di Elena però lo destabilizzò di nuovo, presto divenne geloso di tutte le persone che parlavano con lei, finché ad un certo punto la sequestrò. Per due giorni la tenne chiusa nella chiesa, fino a quando il padre non si accorse di ciò che suo figlio stava facendo. Poi i Baccani, grazie alle conoscenze e ai loro soldi, riuscirono ad evitare al figlio un processo, misero tutto a tacere e lo mandarono per alcuni anni in una casa di cura. Ma quando siete tornati… lui ricominciò ad importunarla.” A Stefano girava la testa, Elena non gliene aveva mai parlato… e lui dove aveva la testa per non accorgersi di niente? Guglielmo senza tregua continuò “E’ a sua moglie che avevo fatto la promessa di non dire niente, ma poi c’è stato l’incidente... E ora è lei ad essere in pericolo. Quell’uomo la odia. E’ un pazzo pericoloso.” A Stefano stava per scoppiare la testa. Adesso quelle parole lette tante volte trovavano un senso: “E’ tutta colpa tua”, “Sei un ladro un bastardo”, “Ti schiaccerò”, “Pagherai” .
“Questo vecchio rincoglionito dovrebbe farsi i cazzi suoi.” Si inserì fra loro una voce sibilante.
Interdetti, Stefano e Guglielmo si voltarono nella sua direzione e scorsero l’uomo che aveva seguito tutte le lezioni di Stefano in cappello e impermeabile. Un ghigno di rabbia deformava il suo viso. I suoi occhi erano ridotti a due fessure, fissi su Stefano. Nella mano destra aveva una pietra, immediatamente la scagliò contro Stefano ma colpì invece Guglielmo, alla guancia. Gli occhiali del vecchio maestro volarono in terra.
Incredulo il professore vide l’uomo raccogliere un’altra pietra e tirargliela, mentre gli si avvicinava. Stefano la scansò ma non riuscì a decidersi a fare qualcosa.
“Roberto, smettila!” gridò Guglielmo.
Un sibilo ringhioso gli rispose: “Roberto un corno, quel cacasotto non ha le palle per farvela pagare. Sei tu che gli hai rubato l’Elena. E quella stronza l’ha lasciato a causa tua. Poi tocca a me sistemare i suoi casini, come al solito. Avevo detto a quella puttana che se non tornava con Roberto l’avrei ammazzata!”
Stefano si sentiva annichilito. Quello lo prese per le braccia, lo spintonò lontano da Guglielmo: “Sveglia, finocchio! Lo sapevi che quella troia di tua moglie mi era scappata? Nella chiesa le avevo mollato solo un paio di schiaffi, che cazzo!”
Di nuovo quella risata spezzata, crudele. L’uomo lo gettò a terra poi, con la faccia stravolta dalla rabbia, si avvicinò per colpirlo di nuovo con un calcio. A quel punto Stefano trovò la forza di reagire. A tastoni raccolse un sasso, se lo chiuse nel pugno poi cercò di scagliarlo, ma un’altra mano armata di pietra lo colpì alla fronte. Ricadde a terra, accecato dal dolore e dal sangue che gli colava in sul viso.
“Bastardo ti faccio fuori, com’è vero che mi chiamo Pietro. Devi sparire. T’ammazzo con le mie mani, carogna!” gridava l’altro.
Il sangue gli rombava nelle orecchie. Scosse la testa. Doveva reagire se non voleva morire.
D’improvviso gli arrivò un altro calcio su un fianco che lo lasciò senza fiato.
Allora rotolò su un fianco e con tutta la forza che gli era rimasta, sferrò una pedata alla cieca, colpendo al basso ventre il suo assalitore.
Fu un colpo particolarmente bene assestato: l’uomo crollò a terra con le mani tra le gambe guaendo di dolore.
Stefano si rialzò con l’aiuto di Guglielmo, si asciugò il sangue sul viso, preparandosi a continuare la lotta. Poi si accorse che un improvviso cambiamento era sopravvenuto nel suo aggressore.
“Basta, basta non picchiatemi più, non ho fatto niente. Pietro se n’è andato, sono Roberto non mi riconoscete?”
Guglielmo intanto si era tolto il cravattino: “Leghiamolo subito, presto! Quello che lui chiama Pietro potrebbe tornare da un momento all’altro.”
Ma non accadde, Roberto si lasciò docilmente legare le mani dietro la schiena. Non c’era traccia in lui della furia omicida di qualche istante prima.
Stefano faticò a ritrovare il filo dei suoi pensieri. Fece dei lunghi respiri, la schiena gli faceva male.
Barcollava per i colpi che aveva subito e sentiva salire la nausea di una probabile commozione cerebrale.
Da quel momento in poi i suoi ricordi divennero vaghi.
Ricordava la gente che pochi istanti dopo era venuta ad accalcarsi attorno a loro richiamata dal rumore della loro colluttazione, vagamente la polizia e poi l’ambulanza che lo condusse in ospedale.
Per quasi tutto il tempo fissò Roberto che, finché non giunsero a portarlo via, rimase sdraiato a terra, mugolando come un bambino.

(Autore: Rossana Bernardi)

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